Il SUICIDIO ADOLESCENZIALE: la Blue Whale Challenge

Introduzione

Cercare un “curatore” sui Social Network, segnarsi con una lama «f57» sulla mano, alzarsi alle 4.20 del mattino, esprimere la volontà di voler diventare una balena incidendosi l’animale sul braccio, guardare video psichedelici e horror, procurarsi dolore. Sono queste alcune delle regole della Blue Whale, una challenge distruttiva[1] che prevede un’escalation di prove da superare per arrivare al “grande salto” da un edificio molto alto al fine di “prendere in mano la propria vita”.

 

[1] Prendono il nome di challenge distruttive quelle sfide che recano danni all’individuo. Ne sono un esempio la Fire Challenge (consisteva nel cospargersi di benzina, darsi fuoco e poi avvolgersi rapidamente in una coperta per estinguere le fiamme) e la Tide Pods Challenge (ingerimento di una capsula di detersivo per lavatrici).

Aspetto storico/sociologico

La Blue Whale nasce nel 2016 sul Social Network russo VKontakte. Essa presenta alcune delle caratteristiche tipiche della challenge: è una sfida della durata di cinquanta giorni durante i quali un amministratore-curatore, contattato dal ragazzo tramite il profilo social, impartisce delle regole da rispettare. Le trasgressioni e i tentativi di abbandono non sono ammessi, pena minacce per la famiglia del partecipante.

L’avvenuta esecuzione della prova deve essere fotografata e condivisa con il curatore, così come deve essere filmato e condiviso sui social anche l’ultimo atto estremo richiesto dalla challenge: il suicidio.

La Blue Whale Challenge comincia ad essere conosciuta in Italia in seguito a un servizio di Matteo Viviani delle Iene andato in onda domenica 14 maggio 2017. Da quel momento il fenomeno ha immediatamente ricevuto una grande attenzione mediatica.

Nonostante il servizio si sia rivelato non attendibile (vedi link video) e non sia stata appurata la reale esistenza del caso della balena azzurra, può essere interessante cercare di comprendere i risvolti psicologici ed educativi del fenomeno.

Aspetto psicologico/patologico

In Italia sono stati registrati diversi casi di adolescenti che hanno partecipato o tentato di partecipare alla Blue Whale Challenge. In che modo i mass media possono aver influito su questa loro decisione?

A partire dagli anni Cinquanta, con la crescita della diffusione della televisione, la comunità scientifica ha cominciato a intensificare gli studi relativi al nesso presente tra i mass media e le condotte suicidarie adolescenziali.

Le ricerche hanno dimostrato che la rilevanza conferita alla notizia di un suicidio, specialmente se quest’ultimo è stato compiuto da persone di rilievo e con caratteristiche simili al soggetto, può innescare negli individui quello che il sociologo David Phillips definisce “effetto Werther”, un incremento delle condotte suicidarie su base imitativa.

L’emulazione dei propri coetanei, unita alla curiosità suscitata dai dettagli inusuali forniti sulle modalità del suicidio richieste dalla challenge, possono quindi essere stati dei fattori che hanno indotto gli adolescenti ad avvicinarsi alla Blue Whale.

 

Ma è sufficiente l’imitazione per condurre un ragazzo a

desiderare di morire?

 

Federico Tonioni, psichiatra, psicoterapeuta e fondatore del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, afferma: «chi fa questi passi, per quanto mi riguarda, è già ad un passo dal baratro»[1]. Egli si trova in accordo con quanto sosteneva Durkheim:

L’imitazione non può essere interpretata come la causa di una condotta suicidaria: essa, infatti, non fa che rendere visibile uno stato che è la vera causa generatrice dell’atto e che, con tutta probabilità, avrebbe comunque trovato il modo di produrre il suo effetto. Fortissima, infatti, deve essere la predisposizione, se così poca cosa è sufficiente a farla passare all’atto.[2]

L’emulazione quindi costituirebbe solo un fattore precipitante per un adolescente che ha già ideato un progetto suicidario: il processo imitativo può influenzarne tempi e modalità.

 

[1] Elena Romanazzi (2017), «Balena blu», come funziona il gioco che spinge al suicidio, http://ilmattino.it/primopiano/cronaca/balena_blu_il_gioco_che_spinge_al_suicidio-2469701.html, ultimo accesso 19 Giugno 2018.

[2] Émile Durkheim, Il suicidio: studio di sociologia, Milano, BUR Rizzoli, 2014.

Aspetto educativo e conclusioni

A che bisogno risponde la Blue Whale Challenge? Perché un adolescente arriva ad aderire a queste sfide o ad entrare in gruppi sui Social Network al fine di suicidarsi o a tentare il suicidio?

Sono queste alcune delle domande che un educatore dovrebbe porsi di fronte a tali fenomeni.

È fondamentale che egli “stia sul pezzo”, informandosi in maniera critica su ciò che avviene intorno a lui e intorno al suo educando, con l’obiettivo di individuare delle chiavi di lettura utili per cogliere la complessità che connota le condotte suicidarie adolescenziali.

Come sostiene lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet nel suo libro Uccidersi: il tentativo di suicidio in adolescenza, il rischio è quello di banalizzare questi gesti estremi, di etichettarli come semplici “ragazzate”, rinunciando di assumersi la responsabilità dell’appello che gli adolescenti gridano silenziosamente con le loro condotte e precludendosi così la possibilità di costruire un intervento educativo efficace a lungo termine.

L’educatore riflessivo (oltre il) 2.0 dovrebbe condurre gli educandi in un cammino di ri-significazione (Che senso e che valore ha per te la vita?) e di ricapacitazione nell’utilizzo dei Social Network affinché essi imparino a chiedere aiuto a persone competenti (e non a gruppi di sostegno al suicido) e a promuovere le challenge costruttive.