Selfie: quando il mettersi in mostra si mette in mostra

Introduzione

Quella dei selfie è senza dubbio una delle pratiche più diffuse del nostro tempo: gli affetti, la sessualità, il corpo, l’attività sportiva, il tempo libero, gli spazi urbani e persino le pratiche relative alla morte (extreme selfie) sono diventate luoghi di dominio pubblico. 

Ma come questo fenomeno ha influenzato l’arte contemporanea?

Aspetto storico/sociologico

Il ritratto di sé appartiene ad un consistente patrimonio storico-artistico che include Rembrandt, il compulsivo documentarista di se stesso, Courbet, che si raffigura come un bohémien, e Van Gogh, il fragile genio con un orecchio bendato.

Oggi, il genere dell’autoritratto presenta caratteristiche peculiari, in gran parte legate all’universo dei social network e all’uso di internet dove diventa essenziale: scattare – modificare – condividere. 

Questa esplosione virale del selfie, medium creativo e assolutamente democratico, non poteva non colpire l’immaginazione e la curiosità degli artisti. Sono infatti numerosi i tentativi di rielaborare la propria immagine e la sua percezione, sia riallacciandosi al genere storico dell’autoritratto, sia approcciando i nuovi linguaggi elaborati negli ultimi quindici anni nel contesto dello sviluppo tecnologico globale. 

Nel 1972 Franco Vaccari presenta alla XXXVI Biennale d’Arte di Venezia l’opera Esposizione in Tempo Reale n. 4, dove una scritta sul muro (Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio) invita i visitatori a rendersi parte della mostra e a creare mediante una photomatic un discorso collettivo. Tuttavia, il fenomeno si acuisce in questo primo ventennio del XXI secolo con declinazioni che trasformano l’artista in un selfista. 

La fiera d’arte di Londra specializzata in videoarte, Moving Image, ha presentato nel 2013 una mostra tutta dedicata al tema del selfie: National #Selfie Portrait Gallery, un progetto ideato da due giovanissimi curatori, Marina Galperina e Kyle Chayka, che riuniva brevi video di al massimo 30 secondi, realizzati da 19 artisti internazionali. I curatori hanno spiegato che “il progetto rappresenta un meta-commento sul self-brading nell’era digitale; i selfie non sono sempre arte, ma queste opere d’arte sono sicuramente dei selfie”. I video inclusi nella selezione sono estremamente diversi tra loro per concezione, estetica ed esecuzione: vanno dal commento ironico di Hennessy Youngman, che si concentra sul processo stesso dello scatto di fronte allo specchio, all’approccio più sperimentale di Alexander Porter, che utilizza la grafica tridimensionale per trasformare il proprio volto in un paesaggio.

Il tema del rapporto fra arte e selfie è anche al centro dell’open call lanciata nel 2014 dall’artista e curatore americano Patrick Lichty: Selfies and the New Photography. 50 Artists/50 Selfies.

Con From Selfie to Self-Expression (2017), la Saatchi Gallery di Londra traccia la storia del ritratto: in mostra opere di vari artisti, tra cui Van Gogh, Velázquez, Frida Kahlo e tra i contemporanei, Tracey Emin, Cindy Sherman e Kutluğ Ataman, per ricordare non solo un genere antico ma anche e soprattutto per esplorare il potenziale creativo degli autoscatti. “Negli ultimi cinque secoli gli esseri umani sono stati ossessionati dal creare immagini di se stessi e condividerle”, ha affermato Nigel Hurst, curatore della mostra. “L’unica cosa che è cambiata oggi è il modo in cui lo facciamo”.

Aspetto psicologico/patologico

Tra i fenomeni che caratterizzano l’era contemporanea, permeata di dispositivi elettronici che, almeno negli ultimi decenni, hanno trasformato radicalmente la sfera interpersonale, il selfie rappresenta il rischio di una sempre più avvertita vetrinizzazione dell’uomo, all’interno di un processo di spettacolarizzazione degli individui e della società.

Narcisismo, vanagloria, egocentrismo, solipsismo: sono queste le parole che ricorrono più spesso nelle discussioni su uno dei comportamenti più diffusi del nostro tempo. Aumenta il gesto ripetitivo di affermazione, di commemorazione, di messa in evidenza, come se mostrarsi, farsi vedere, sia la prova della propria esistenza, della propria visibilità agli altri, e di accettazione sociale. La considerazione che si ha di se stessi va di pari passo ai “mi piace” collezionati su Facebook, Instagram e altri social.

L’autoscatto da cellulare ha conosciuto una vera impennata qualche anno fa con la comparsa di un accessorio: il selfie stick. Ribattezzato ironicamente narcistick, non è altro che un bastone a cui fissare il telefono o la macchina fotografica in modo da allontanare di qualche metro l’obiettivo, superando così i limiti del proprio braccio. 

Una rielaborazione critica e decisamente macabra di questo strumento che rende autonomi nello scattare le foto, è il Selfie Stick Arm, ideato dagli artisti Justin Crowe e Aric Snee. Si tratta di un bastone metallico telescopico con la forma di una finta mano umana, così da celare al mondo la propria solitudine e far credere di essere in dolce compagnia.

Aspetto educativo

I selfie possono avere due accezioni: quella positiva che ci permette di comprendere, strutturare e costruire la nostra identità, ma anche quella negativa che ci porta ad assumere identità sociali che non ci rappresentano e a ripetere comportamenti stereotipati e vuoti.

L’educatore deve saper cogliere la differenza ed evidenziare all’educando (pre-adolescente, che inizia ad approcciarsi al mondo social costruendosi un’immagine di sé che non necessariamente corrisponde alla realtà) i pericoli di tale gesto: il selfie non rappresenta in maniera completa ciò che si è e contemporaneamente, può modificare la reputazione social e sociale molto velocemente. 

L’artista statunitense Pablo Garcia con il suo progetto Memento Mori (Selfie Stick), una versione del selfie stick che porta con sé, come accessorio dell’accessorio, un teschio pixelato realizzato con la tecnica dell’anamorfosi, ci ricorda la nostra mortalità in mezzo a tanta vanagloria, di non cadere nel tranello dell’approvazione dei “mi piace”. 

Conclusioni

Se il rischio allarmante e crescente è raccontare il proprio vissuto senza filtri o in modo parziale (evidenziando solo alcuni aspetti della propria soggettività), è pur vero che nel campo dell’arte è diffuso l’impegno sociale e lo studio critico del fenomeno, oltre al mero self-branding e al personal storytelling. L’artista utilizza infatti questo strumento sia per un’indagine introspettiva ma anche sul mondo che lo circonda, fornendo talvolta delle risposte. 

L’arte può e deve essere educativa! Attenzione però a non confondere la realtà con la finzione.